La normativa dell’Ordine: divieti e condanne
A metà del Duecento l’idea che dell’alchimia sembrano avere personaggi di tutto rilievo in seno all’Ordine appare quella di un sapere della materia che può, anzi deve, inoltrarsi al di là dei confini segnati dall’epistemologia aristotelica. Negli alambicchi e nei forni dei cultori dell’“arte” avvenivano infatti processi che non potevano essere spiegati alla luce della filosofia naturale aristotelica. Di lì a una ventina d’anni tuttavia, a quanto pare non prima del 1285, sarebbe stato promulgato il primo statuto che vietava esplicitamente lo studio e la pratica dell’alchimia.
Per capire le motivazioni di questo mutamento è opportuno fornire qualche breve ragguaglio in merito alla discussione sull’alchimia nel contesto dell’Università medievale. Tutto ruotava intorno all’obiezione contro la possibilità reale della trasmutazione metallica avanzata nel sec. X da Avicenna nel De congelatione et conglutinatione lapidum. Egli afferma che non si possono trasformare le specie, e che dunque le pretese degli alchimisti sono impossibili, quando non una vera e propria frode: «Sappiano dunque gli alchimisti – così recita il testo – che non possono trasmutare le specie delle cose». Vi era pertanto il pericolo di andare ben oltre le tecniche consentite nel tentativo di varcare una soglia, quella della natura, che filosofi e teologi consideravano un confine ontologico invalicabile.
A questa incompatibilità sul piano epistemologico e alle sue ricadute in ambito teologico risale dunque, secondo gli studiosi, una delle motivazioni della condanna emessa contro l’alchimia dal papa Giovanni XXII con la bolla Spondent pariter del 1317. Troviamo comunque la prima esplicita condanna dell’alchimia negli statuti dell’Ordine non prima del 1279, anzi sicuramente risale a un momento successivo, tra il 1285 e il 1310, un’annotazione aggiunta all’art. 22 del Capo VI delle Costituzioni di Assisi:
Per obbedienza stretta, in virtù dello Spirito santo, il ministro generale insieme al capitolo generale proibisce a tutti i frati di apprendere, praticare o insegnare l’alchimia, la necromanzia, i sortilegi e le superstizioni di qualsiasi tipo, i malefici e tutte le altre pratiche relative a dottrine o arti sospette, che non sono insegnate pubblicamente, ovvero che sono riprovate dalla Chiesa, e in genere tutte le operazioni truffaldine e odiose, come le invocazioni dei demoni, gli incantesimi su cose e persone, i trucchi per ingannare i sensi, i tentativi di trovare tesori nascosti o di aprire qualsiasi serratura con arti segrete o con mezzi occulti; [proibisce] poi di conservare, leggere o far trascrivere per sé o per altri libri che contengono scritti di questo genere, di farseli imprestare da qualcun altro o di ottenerli in qualsivoglia modo […].
Lo statuto annesso alle Costituzioni del 1279 fu ribadito ancora nel 1313 e nel 1316. Ciò nonostante, la pratica alchemica continuò a essere diffusa nell’Ordine: le ricerche sui manoscritti hanno messo infatti in luce un discreto numero di frati cui sono attribuiti trattati alchemici scritti fra i secc. XIII e XIV.